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2013

Teniamo duro, il porto è vicino

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Prima di entrare nel vivo, è d’obbligo una breve digressione. «Giocare a porte chiuse? Secondo me è un problema, senza pubblico non è calcio». L’aveva detto Delio Rossi in conferenza stampa prima della partita, enunciando una delle sue peculiari sentenze grondanti di saggezza che lo rendono il grande personaggio che è, ossia un taumaturgo, uno stregone del calcio prima che un allenatore. Senza entrare nel merito delle beghe burocratiche che hanno determinato la chiusura di “Is Arenas”, occorre riflettere e pensare innanzi tutto che il calcio nasce per unire e far divertire. Per quanto vedersi la partita seduti in poltrona sia, agli occhi di molti, più comodo e conveniente, solo vivere la partita allo stadio trasmette certe emozioni. Sembra una sciocchezza ma è in realtà un fenomeno che sta autenticamente dilagando (in particolare a Cagliari) e impoverendo, consequenzialmente, il nostro calcio, anche a livello di qualità dello spettacolo tecnico.

Quanto alla partita; beh, apparentemente nulla di nuovo. C’è da commentare una sconfitta a Cagliari ed è già successo più di una volta: di delusioni in terra sarda ne abbiamo ormai le tasche piene, ci siamo abituati. Addirittura, forse, fa un po’ parte del nostro DNA: salvo la netta vittoria ottenuta nel 2007 per 0-3, a Cagliari raramente si vince negli ultimi anni e se non si perde, si pareggia, giocando comunque molto male. Apparentemente per commentare questa sconfitta si potrebbero ripetere le cose dette per le altre, tristi, disfatte sarde: squadra molle, impacciata, sfilacciata, poco attenta in difesa e poco propositiva dalla metà campo in sù. Però, questa volta, c’è altro da aggiungere. Perché la Sampdoria ci arrivava da seconda classificata del girone di ritorno, con la miseria di tre reti subìte nel 2013, con la spinta emotiva di un filotto di 6 risultati utili consecutivi e con l’apparente incentivo dato dal nervosismo e dalla stizza che potevano disturbare quelli del Cagliari (sentimenti che, invece, si son tradotti in motivazione e cattiveria agonistica). Insomma, gli ingredienti per far bene sembravano esserci. Ma in realtà no, non era tutto così perfetto. A questa Samp mancava qualcosa: mancavano Gastaldello e Krsticic, personaggi poco propagandati (e va benissimo così) ma indiscussi protagonisti del “miracolo” blucerchiato. I maestri del calcio di una volta, stregoni, proprio come Delio, dicevano che per rendere una squadra grande bastasse avere una spina dorsale di grande valore, formata da un portiere, un difensore, un centrocampista e un attaccante. Pensando al nostro undici, Gastaldello e Krsticic sono probabilmente parte di quell’ossatura, almeno da quando Rossi siede sulla nostra panchina. E, nei reparti presidiati dal guerriero serbo e dal faro padovano, la loro assenza si è fatta sentire, e tanto: forse quella storia della spina dorsale non è poi così campata in aria.

In settimana si è festeggiato tanto, i rinnovi di Krsticic, Obiang ed Èder hanno reso il clima ancora più disteso di quanto non fosse. È stato forse anche questo ad aver fisiologicamente privato l’undici doriano della fame e della rabbia che serve per conquistare i punti salvezza (che è vicina, molto vicina ma non ancora raggiunta) e che avevamo visto nei sei atti del filotto vincente. Ebbene, siamo qui a Cagliari, un’altra volta sconfitti. Lacerati, ma con un mezzo sorriso perché la classifica, per quanto faccia male lo schiaffetto preso in Sardegna, ci piace ancora. Che venga però compresa la lezione. Lo schiaffo di ieri deve svegliarci, ricordarci che il quasi ungarettiano porto (della salvezza), a cui spesso Maresca ha alluso nei suoi tweet, dista ancora qualche metro e che bisognerà far di tutto per farci arrivare la nostra splendida nave blucerchiata.

 

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