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Pellegrini sull’addio alla Samp: «Sono stato tradito»

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Luca Pellegrini racconta i suoi anni in blucerchiato e svela i retroscena del suo addio alla Sampdoria

Tornare indietro, ripercorrere quella che è stata una carriera ricca di successi in blucerchiato, per Luca Pellegrini è facile ma anche difficile. A tanta gioia corrisponde anche tanto rancore per alcune situazioni che, purtroppo, hanno incrinato i rapporti. Ai microfoni di Luca Uccello, il Capitano della Sampdoria dello scudetto non nasconde che avrebbe voluto chiudere la carriera in blucerchiato.Rivela alcuni retroscena, su come gli fu comunicato di non essere più parte del progetto da parte di Paolo Mantovani: «La Sampdoria è stata, per larga parte della vita, la mia vita. Ho avuto la fortuna di giocarci undici anni, sono stato il primo acquisto, assieme a Bistazzoni, dell’era Mantovani. Potrei dire di essere la pietra miliare attorno alla quale la dirigenza tecnica ha costruito la storia blucerchiata. Sono stati i tifosi ad etichettarmi come “Il Capitano”, probabilmente perché ho sempre incarnato lo stile della Sampdoria. Essere capitano è una cosa genetica, la hai dentro, fin da piccolo sono sempre stato un leader. Non uno di quelli rumorosi, ero abbastanza silenzioso, ma quando dicevo le cose venivano ascoltate».

Arrivare sul tetto della Serie A, all’epoca, era possibile perché il calcio era diverso: «La Sampdoria ha vinto lo scudetto perché nel calcio contavano ancora le individualità. Noi non eravamo “organizzati“ perché Boskov giocava all’antica. Venivamo da due anni con Bersellini dove avevamo giocato a zona, Boskov passò alla marcatura a uomo perché esigeva sapere chi fosse il responsabile dei gol subiti. Aveva esperienza da vendere, era psicologo, sapeva gestire un gruppo di galletti con forti personalità, ci voleva uno che sapesse usare il bastone e la carota. È riuscito a dare un equilibrio all’interno del nostro spogliatoio. Ognuno di noi aveva una sua identità, un forte carattere che ovviamente si era consolidato con il tempo grazie alle esperienze, ci siamo forgiati a vicenda e molto bene. Qualche volta il mister ci chiedeva consigli per fare la formazione, è stato chiesto anche me di dare un giudizio sui miei compagni di squadra ma non mi veniva naturale, tant’è vero che poi io non ho fatto l’allenatore. Non era così per altri miei compagni di squadra che davano anche giudizi trancianti».

I procuratori e Paolo Mantovani, un aneddoto che ci mostra un calcio completamente diverso da oggi: «La Champions? Non l’hanno vinta perché non c’ero più io. Sono sincero non ho mai seguito le partite di Coppa dei Campioni della Sampdoria. Mi sono sentito tradito, che è peggio della delusione. Deluso, è un qualcosa che ti manca, ma quando poni fiducia e vieni tradito, non ha paragoni. Correva l’anno 1984, l’avvocato Canovi è stato uno dei primi a diventare procuratore, io avevo difficoltà ad andare a parlare di soldi, mi risultava pesante. Lo ingaggiai dopo aver valutato la situazione con la mia famiglia. Non ho però mai mandato nessuno dalla società, essendo ancora sotto contratto. Adesso è una cosa naturale che l’avvocato vada prima della scadenza a parlare con la società, all’epoca no. Eravamo in ritiro e il mio procuratore, inseguito alla vittoria della Coppa Italia, si presenta in sede. Io non ne sapevo nulla. Mi ferma Bersellini, prima di un allenamento, per chiedermi conto del procuratore e per avvisarmi che il Presidente c’era rimasto male. Lo chiamai, risolsi la situazione e pianificammo di vederci: una volta faccia a faccia ci facemmo una risata, liquidai l’avvocato e non si parlò più di contratto. Lui non voleva i procuratori perché aveva talmente tanta voglia di stare con noi che, non potendo scendere in campo, non voleva gli fosse tolta la possibilità di contrattare con i giocatori, così mi spiegò».

«Arriviamo al 1990/91, avevo firmato un contratto in bianco, della durata di tre anni. Quel contratto scoprii a fine stagione non fu mai depositato. Dopo la vittoria dello scudetto mi cercò, invano, Borea. C’erano state voci in entrata ma non gli avevo dato peso. Chiamai il Presidente per sapere il motivo della telefonata del direttore sportivo e lui mi comunica che non sarei stato confermato per l’anno successivo. Sono rimasto impassibile e ho chiesto del contratto, mai depositato, riguardo alle pendenze, poi ho riattaccato. Abbiamo avuto la fortuna di avere Paolo Mantovani come presidente che ci ha coccolato, chi più e chi meno: è sempre stato una persona presente anche quando era all’estero. Ogni anno, dopo che ero andato via, si verificava la possibilità di rientrare a Genova. Quando arrivò Eriksson fu lui a dire di volermi. Nel 1994/95 sarei dovuto rientrare a Genova ma ci fu la cessione di Pagliuca all’Inter che presuppose l’arrivo di Riccardo Ferri che aveva più o meno le mie caratteristiche e quindi saltò tutto».

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