2014

Okaka: «La mia famiglia punto di riferimento. Cassano amico vero»

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Ormai è un centravanti della Samp e anche della nazionale azzurra, ma Stefano Okaka non ha dimenticato il suo passato: l’esplosione, la giovane promessa e le difficoltà che sono nate da quella etichetta. In un’intervista concessa a “La Gazzetta dello Sport”, il centravanti blucerchiato ha parlato di tutto. A partire da un viaggio in Nigeria, per scoprire le sue origini: «Vivere a Roma ai tempi della Dolce Vita non doveva essere male: quando giocavo lì mi hanno fatto una testa così. Ma il vero viaggio nel passato – quando andrò – sarà a Lagos, dove sono nati i miei. Mi sento italiano. A maggio e venti giorni fa mi hanno telefonato per propormi di giocare per la Nigeria, ma ho detto no. Però il mio passato là e oggi mi sento come un albero che non conosce le sue radici».

AVVERSARI – L’approccio ai suoi opponenti è sempre di lotta pura: «Io sono dottor Jekyll e Mister Okaka. Mia madre diceva che in campo mi trasformavo: è vero. Fuori un bonaccione, lì dentro una bestia che non guarda in faccia a nessuno. Credo sia la mia forza». Sugli avversari più forti: «Non c’è stato uno più forte di altri. Forse Thuram il più intelligente, ma quando sono in campo per me sono tutti uguali. Per 90′ odio allo stesso modo tutti quelli che giocano contro di me. Prima li studio al video e poi li detesto. Non ci litigo perché non sono il tipo, però i miei dicono una sola cosa: ti devo battere e basta. Poi a volte gli avversari sono anche gli arbitri, ma con loro è un’altra cosa: non li odio, li sfinisco».

TATUAGGI – Non è un fan, ma un paio ce li ha pure lui: «Detesto l’esibizionismo. Una volta avevo due orecchini a forma di cuore ma poi li ho regalati a mia mamma. Adesso ho un cuore con le iniziali dei genitori e dei fratelli sul posto destro, così lo vedo sempre, ogni volta che abbasso lo sguardo. Le tre stelle dietro l’orecchio no, ma lì quello che conta è il significato. Quel tatuaggio ce lo siamo fatti io, il mio amico Diego e la mia gemella Stefania: il vero simbolo per noi è stato quello. Per questo, quando per me e lei succederà qualcosa di significativo, ne farò uno anche con Veronica, la mia fidanzata: magari mezzo cuore io e mezzo lei, così non fa male a nessuno…».

ADOLESCENZA – Un periodo vissuto spensieratamente: «Se nasci e cresci in un posto, è facile che quello resti il tuo punto di equilibrio e di sicurezza. Se chiudo gli occhi e penso a Castiglione del Lago, ho solo ricordi felici. Pazienza se una volta ci siamo tuffati da un masso dove non si toccaa, ho rischiato di annegare e da allora – per la paura – non ho mai imparato a nuotare. Non si navigava nell’oro, ma almeno una volta al mese papà portava la famiglia al ristorante e quella era la nostra festa. Nessuno ci ha fatto mai pesare il colore della pelle. A Cittadella sì, quando andavo a scuola. Non per il fatto di esser nero, piuttosto per il mio secondo nome “Chuka”, che significa “Dio al di sopra di ogni cosa”. L’anno dopo, quand’ero alla Roma, mi chiesero l’amicizia su Facebook: col cavolo, per me erano morti».

AMICI – In questo campo non si finisce mai di imparare: «Ci ho messo un po’ di tempo e fregature, perché quand’ero giovane ho dato fiducia a un sacco di gente sbagliata. Adesso l’ho capito: l’amicizia che nasce quando sei piccolo o non sei nessuno è l’unica incontaminata. Quelle che vengono dopo sottointendono sempre un pizzico di interesse. Solo Diego, che ha una palestra a Castiglione del Lago, ha resistito alle selezioni: ci siamo conosciuti in campeggio e lui c’è sempre stato. Come c’era Cassano, quando a Parma era l’unico a credere in me e a proteggermi. Mi diceva sempre: «L’acqua che sta in cielo prima o poi scende, e scende forte». Antonio potrebbe fare il metereologo…».

MOMENTO BUIO – C’è stato un passaggio difficile della carriera di Okaka proprio a Parma: «Tre nomi: Parma, Leonardi e Donadoni. Mi vogliono e poi inspiegabilmente mi mandano a La Spezia. Poi torno e mi fanno allenare da solo, senza spiegarmi nulla. Oggi devo dirgli grazie altrimenti non sarei mai arrivato alla Samp, però a quei tempi ero arrivato a dirmi che il calcio non era la mia strada. Ma il passato non si dimentica, perché ti lascia sempre qualcosa di buono. A me ha lasciato l’amicizia con Cassano e un nuovo modo di pormi con la gente del calcio. Ricordo la frase di Kobe Bryant: «Se non credi in te stesso, nessuno lo farà per te». Ci credo molto».

VIAGGI – New York come punto di svolta: «Mi sono chiesto perché mai ero così pigro, dovevo viaggiare di più. A New York ho capito che viviamo tutti sotto lo stesso cielo e ho sentito completamente mia la regola che è l’unica vera legge di quella città, “vivi e lascia vivere”. In Italia tutto deve esser capito, giudicato e quello che è diverso va studiato: a New York puoi scendere in strada e andare in giro in pigiama e pantofole e nessuno ti guarda strano. A proposito di curiosità, mi è venuta una mezza fissa: un mondo che mi intriga è quello dell’Asia. Il prossimo viaggio lo faccio in Giappone, ma lì ci porto tutta la famiglia».

IDOLO – C’è un modello per il calcio: «La folgorazione l’ho avuto a 10 anni, una cassetta che aveva portato a casa papà: il meglio di Ronaldo. Non riuscivo a smettere di guardarla. Lui era il calcio, non un calciatore: semmai un artista. Per me non esistevano altri, dopo di lui non ce ne sono stati altri e temo che non esisterà un altro come lui. Il gol con il Barcellona contro il Compostela ce l’ho stampato dentro gli occhi e quando a Catania, lo scorso campionato, sono partito da metà campo ho pensato: «Visto che studiare così tanto il Fenomeno ti è servito?». Quel giorno fu puro istinto, quando l’ho rifatto contro il Torino invece era consapevolezza. Ho nel cuore un sogno: incontrare Ronaldo. E anche LeBron James».

ALTRI SPORT – Non solo il calcio: «Non so se sarei stato un grande schiacciatore di volley, ma so che ho rischiato di non essere mai un centravanti. A 12 anni, giocavo ancora nel Sanfatucchio, per due mesi ho smesso con il calcio: non ho mollato un po’, ho proprio spesso. Full immersion di pallavolo: un amico d’infanzia del figlio del presidente del Perugia volley, palasport a cento metri da casa, loro che dicevano che le mie schiacciate facevano i buchi sul parquet. Due mesi e poi è tutto finito, quasi da un giorno all’altro: vedevo il calcio in tv e sentivo che qualcosa mi mancava. Giocavo a pallavolo e sentivo che non era uno sport che mi completava. Mi hanno martellato di telefonate per giorni, ma non mi hanno visto mai più».

FAMIGLIA – Un’unione sempre più forte: «Una cosa è l’amore per i figli, una cosa è la forza di metter su una famiglia come la nostra: immigrati, di colore, con tre figli, ma i miei non ci hanno mai fatto mancare nulla e sono stati rispettati da tutti perché pagavano tutto, sempre. Per questo quando ho iniziato a guadagnare 500 euro, 400 li davo a loro. Per questo oggi che ci sono altre possibilità economiche, noi siamo uguali a prima. Il successo non ci ha diviso. Austin, mio padre, mi ha regalato il fisico e la sua testardaggine; Doris, mia madre, la sua serenità e dolcezza. Mio fratello Carlo mi ha insegnato come essere protettivo, sopratutto con la mia gemella Stefania. Aver avuto una famiglia così mi fa venir voglia di volerne una uguale: Veronica può essere la donna giusta».

POLITICA – Un impatto forte nella sua vita: «Come si potrebbe far politica l’ha insegnato uno che politico non era. Ho studiato il carisma e il coraggio di Martin Luther King ascoltando i suoi discorsi su YouTube: lui non ha aperto una strada solo per noi neri. Lui ha insegnato che la politica è per gli altri e non per sé stessi: è fare il bene di tutti. Sinistra o destra, oggi accade spesso il contrario. Ma non è colpa solo di chi ci governa: la chiave è migliorare tutti, cominciando dall’essere padroni di sé stessi e allora i primi politici dovrebbero essere i cittadini, perché poi sono loro che scelgono chi li deve guidare. In Italia ultimamente non è successo proprio così e anche per questo l’ultima volta non sono andato a votare: che ci vado a fare se è un voto a metà?».

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