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Montella: «Nazionale? Se mi chiamassero, ci penserei»
Tifoso del Milan e col mito di Van Basten, Vincenzo Montella è cresciuto in una grande famiglia e suo padre, infatti, faceva due lavori per sostenere i cinque figli. Operaio all’Alfa Sud di giorno, falegname nel resto del tempo. A 13 anni la svolta: parte per Empoli per inseguire il suo sogno, diventare calciatore. «Giocavo nella squadra del Castelcisterna, la formazione del mio paese. Ho cominciato in porta, non so perché. Un giorno arrivò Silvano Bini che era il plenipotenziario dell’Empoli. Arrivò a casa e convinse i miei. Offrì, come garanzia, il fatto che con me ci sarebbe stato un altro ragazzo del paese, Caccia, che era più grande di me e abitava, con la famiglia, poco lontano da casa nostra. Questo rassicurò un po’ i miei, e cominciò così il mio viaggio nel calcio», racconta l’allenatore della Sampdoria a Walter Veltroni per il Corriere dello Sport.
Il distacco non fu traumatico: «Non ho avuto grosse nostalgie perché inseguivo il futuro e volevo fare in modo che arrivasse il prima possibile. Vivevamo in quattro in una stanza, andavamo a studiare, poi agli allenamenti. Non c’era tempo per frignare», ha spiegato Montella, che cominciò dai Giovanissimi e poi a 16 anni e mezzo ha debuttato in Serie A. A 18 anni però cominciò il calvario: frattura del perone e rottura dei legamenti. Rimase fermo sei mesi, poi a causa di una miocardite è stato fermo un anno in attesa dell’abilitazione. Un periodo durissimo per l’ex attaccante: «Mi crollò il mondo. Avevo fatto tanta fatica e ora mi trovavo con un pugno di mosche. Il futuro mi sembrava buio come la notte. Poi la miocardite, come era arrivata, andò via, inspiegabilmente e improvvisamente. E la luce si riaccese».
Montella, che ha imparato il senso della fatica e il valore della costanza da Ettore Donati, l’allora allenatore dell’Empoli, in quegli anni conosce Luciano Spalletti: «Ho giocato con lui a fine carriera e poi fu il mio allenatore nell’anno della miocardite. Lo ricordo perché due giorni dopo l’arrivo del certificato di idoneità lui mi fece giocare in uno spareggio decisivo. Io non avevo disputato una partita vera in tutto l’anno e lui ebbe il coraggio di mettermi in campo. Vincemmo, peraltro. La dote principale di Luciano è la conoscenza e la competenza tecnica unite a una grande costanza n e l lavoro. Il difetto è forse che si preoccupa troppo di quello che dicono gli altri». C’è poi il passaggio dal Genoa alla Sampdoria, senza dubbio coraggioso: «Essendo in comproprietà tra i rossoblù e l’Empoli, le società dovevano mettersi d’accordo. Invece andarono alle buste e vinse l’Empoli. Che poi mi cedette ai blucerchiati. Era una squadra fortissima. Con me c’erano Mancini, Mihajlovic, Veron… L’allenatore era Eriksson, capace di trasmettere costantemente serenità alla squadra. Quell’anno arrivai anche in Nazionale».
Si arriva, quindi, al racconto del salto in Nazionale: «Almeno per quelli della mia generazione che avevano vissuto i mondiali di Spagna, era una emozione indescrivibile. L’Italia è il massimo per un calciatore. Io quando ero in campo e sentivo l’inno nazionale avevo le gambe che mi tremavano. Ci si sente investiti di una responsabilità più grande, si rappresenta una nazione, si può fare la gioia o la malinconia di milioni di persone. Ancora oggi, quando sento in tv l’inno di Mameli prima delle partite, ho la stessa, particolare, emozione». Inevitabilmente si finisce a parlare delle voci che lo accostano proprio alla panchina azzurra: «Sinceramente non ci ho pensato. Penso che per quel ruolo una dote fondamentale sia l’esperienza. Sa chi vedrei bene sulla panchina azzurra? Claudio Ranieri, uomo di equilibrio che ha visto e vissuto tanto calcio e ha dimostrato, non solo quest’anno, le sue qualità. Se mi chiamassero ci penserei, certamente. E passerei due notti insonni…».
Montella risale poi nella macchina del tempo e riavvolge il nastro dei ricordi fino all’esperienza nella Roma: «Eravamo i più forti in quegli anni. Perdemmo due scudetti e ne vincemmo solo uno. Ma li meritavamo tutti. Era una formazione molto forte dal punto di vista tecnico e, poi, ci divertivamo molto in campo. Abbiamo ottenuto poco. Forse hanno pesato la pressione che c’è a Roma, anche le distrazioni che ci sono. E l’eccesso di affetto dei tifosi che può far smarrire l’equilibrio a qualche giocatore. Problemi con Capello? Sì, mi dispiaceva non giocare. Ci soffrivo. E allora si aprirono dei conflitti. Ma se li rivedo ora penso che, per quanto mi riguarda, ci può essere stato un concorso di colpa. Furono giorni poco sereni e mi dispiace che sia accaduto». Con Francesco Totti all’inizio non ci fu feeling: «All’inizio non avevamo combinato molto, sul piano personale. Ma con il tempo è cresciuto invece un solido rapporto di stima e di amicizia. Siamo cresciuti entrambi. Da calciatore ha fatto cose immense, impensabili. Mi piacerebbe smettesse mentre è all’apice, come è ancora oggi. E quindi finché si diverte, e ora sembra proprio divertirsi, è giusto che continui». E sulla festa scudetto al Circo Massimo: «Una gioia immensa. Fino all’ultima giornata, con il Parma, avevamo paura di perderlo. Io, come le ho detto, quell’anno soffrivo perché giocavo poco. Quella notte magica la ricordo con quel misto di sensazioni, gioia e malinconia. Poi io, per carattere, gioisco dentro di me, più che all’esterno. Ma se dovessi scegliere un evento da rivivere opterei per quella notte. E la vivrei certamente in modo più libero».
Poi il trasferimento in Inghilterra e l’esperienza al Fulham: «Nel campionato successivo allo scudetto giocavo poco e, sinceramente, la mia autostima era sotto il giusto livello. Totti era fuori forma e per due mesi non si espresse all’altezza del suo talento. Ma io non giocavo lo stesso. Allora decisi di andare via. E di andare in Inghilterra. Fu breve ma bellissimo. Un altro modo di concepire le partite, gli allenamenti. Meno pressione mediatica e più divertimento». Ma Montella racconta anche i momenti nei quali ha deciso di smettere di giocare: «Per due o tre giorni non ho dormito. Alla Samp, dove ero tornato, volevano ridiscutere il contratto e mi offrirono, come possibilità, quella di cominciare ad allenare. Ci pensai su. Mi rendevo conto che, in campo, tutto quello che era sempre stato facile improvvisamente diventava difficile. Che quel tiro che un tempo sarebbe certamente finito in rete invece usciva fuori di due metri. Capii che la campana era suonata. Non mi ricordo l’ultima partita giocata. So però che giocare mi manca. Ma volevo uscire in modo che si ricordasse quello che avevo fatto e non in un campo di Promozione con il pubblico che ti fischia perché non puoi più fare quello che le persone hanno nella memoria».
Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, dunque, comincia la carriera di allenatore: «Da quando ho iniziato, insegnando calcio ai ragazzini, ho coltivato una pignola meticolosità. I bambini meritavano il meglio da me. Con loro, se si sbaglia, si possono fare danni seri. Credo che un buon allenatore debba avere equilibrio, duttilità, competenza. Ed è ormai fondamentale l’aspetto psicologico. Quando arrivai a Catania, ero agli inizi, non mi misi certo a fare il professore. Ero uno di loro. Poi nel tempo acquisti sicurezza e autorevolezza. E queste contano. Ma credo che l’intelligenza di un tecnico stia anche nel leggere le differenze degli spogliatoi e nell’inventare ogni volta la giusta ricetta per la specifica situazione». Breve fu l’esperienza sulla panchina della Roma: «Ma intensa. Fui catapultato e il ricordo, ora, è vago e lontano. Subentrai a Ranieri e la squadra fece dei buoni risultati. Poi la società decise di ingaggiare Luis Enrique. Evidentemente volevano dare un segno di discontinuità rispetto al passato». Montella reputa belle tutte le esperienze, ma quella più difficile è senza dubbio quella che sta vivendo ora alla Sampdoria: «Però è una esperienza più formativa delle altre. È chiaro che quando vinci dormi meglio. Ma, in verità, impari meno. Sono stato benissimo anche a Firenze, si vive bene in quella città. Abbiamo ottenuto ottimi risultati, superiori alle aspettative. Poi i programmi della dirigenza e mia non coincidevano. Capita. Io dovunque sono stato mi sono trovato bene». Non esclude sorprese per il futuro: «Sa come è il nostro mestiere, possono arrivare da un momento all’altro. Per ora mi vedo alla Sampdoria».
Infine, qualche curiosità. Dal giocatore più intelligente tatticamente che ha allenato al difensore più rognoso che ha affrontato, finendo col cammino dell’Italia agli Europei: «Se mi chiede un nome le dico Borja Valero. Sta sempre dove è giusto stare. Difensore più rognoso? Molti, ma in particolare Ferrara e Cannavaro. Europei? Nelle grandi competizioni internazionali l’Italia alla fine c’è sempre. Nell’edizione a cui partecipai vivemmo la beffa della finale con la Francia. Non la dimentico. Io sono fiducioso. Anche perché stimo molto Conte».