2015

Ferrero: «Lega Calcio? Sembra una riunione di condominio. Fidel Castro…»

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Un’intervista a tutto campo per scoprirlo meglio. Come ogni sabato, “La Gazzetta dello Sport” gioca a “carte scoperte”, intervistando un personaggio su diverse tematiche della sua vita pubblica e privata. Un modo per conoscere più accuratamente l’intervistato di turno. Stavolta è toccato a Massimo Ferrero, che come suo solito non si è tirato indietro.

AMICI – Tutto partendo dalle persone più fidate che lo circondano, ovvero gli amici: «Ho un sacco di conoscenti: tanto più se si mischiano amicizia e lavoro, oggi è molto difficile trovare amici sinceri. Ho preso delle fregature cosmiche. Ho avuto un grande amico, Giuseppe Bertolucci, che mi ha insegnato tanto e mi ha lasciato troppo presto: sarebbe orgoglioso di me. Oggi ho i quattro moschettieri – Ricky Tognazzi, Lellino, Fabietto e Zio Franco – e D’Artagnan, l’avvocato Antonio Romei. Io nei rapporti cerco solo un po’ di lealtà civile, per questo oggi riconosco come tali i miei figli o persone che nono conosco. A piazza di Spagna e piazza Cavour ho un sacco di veri amici: neri, ragazzi che vendono i calzini, poveri in canna. Perché li porto tutti a fare colazione da Ruschena – un cornetto se lo mangiano in tre morsi, poi passano alla pizza – o al ristorante. La vera felicità per me è regalare a chi ha avuto meno di me: per questo ho partecipato alla costruzione di un ospedale in Brasile».

VIZI – Ferrero si confessa senza alcun filtro: «Ne avevo solo uno, le femmine: più che infedele ero fedifrago, però ora Manuela ha l’esclusiva. Fosse tato per l’esempio che ho avuto da piccolo, avrei fatto il gioco d’azzardo: nonno Angelo ai cavalli si giocava tutto. Per evitare che esagerasse gli prendevo i soldi e andavo io a fare le scommesse. Di mamma Anita si diceva che si giocava al lotto pure la strada di casa, infatti quando tardava a tornare ci preoccupavamo. Io preferivo le carte: da ragazzino zecchinetta sui cofani delle auto, poi poker. Lo facevo per lavoro, ero un fenomeno: mi pagavano per giocare. Oggi al massimo burraco e spizzichino. Non fumo nemmeno più: ero arrivato a 80 Marlboro al giorno. La voce roca non dipende da quello, ma da questo taglio che ho dietro l’orecchio. Mi sono operato per qualcosa, ma non so bene cosa, però ormai facevo tre scale e tremavo tutto. Da dieci anni ne fumo solo una ogni tanto, quando mi va: comando io, non la nicotina».

FAMIGLIAEr Viperetta racconta le sue origini: «Sono nato povero e ho iniziato a sognare il cinema a sette anni: volevo incontrare Biancaneve, per esser il principe azzurro, baciarla e svegliarla. Volevo frequentare i ricchi e fare come nonna Iris, che recitava con Totò e Macario. Mamma Anita lavorava in pasticceria, papà Guglielmo guidava i tram ma era sprecato: uomo di grande cultura, guardava Rischiatutto e le sapeva sempre tutte. La prima volta mi sono sposato a 17 anni e mezzo, Paola ne aveva 16 e faceva la commessa in un negozio di giocattoli. Sono nate Vanessa e Michela. Poi ho fatto un errore di sbaglio, ossia un doppio errore: Laura, la mia seconda moglie. Aveva un piccolo caseificio e la storia della regina delle caciotte miliardarie me la sono inventata io. I suoi due figli, Riccardo e Fabrizio, oggi mi chiamano papà, poi è nata Emma che oggi fa il liceo: da uno sbaglio sono usciti una rosa e due tulipani. E poi ho incontrato Biancaneve, ovvero Manuela, che mi ha dato il coraggio di avere un figlio a quest’età. Le ho detto: «Se è maschio ti sposo, se è femmina e ha la tua classe, la riconosco». 62 anni dopo – il mio stesso giorno, ma venti minuti dopo di me – è nato Rocco, che ha un anno e mezzo, accende il pc da solo e quando vede la partita in tv dice “papà” e sa la formazione della Samp: un figo pazzesco».

CATTIVE STRADE – Dei rischi ci sono stati: «La mia salvezza è stata il cinema: sono cresciuto in un quartiere dove il più pulito aveva la rogna. I ragazzi alternavano atti di bullismo e furti, invece io andavano a nascondermi dentro le ceste dei panni sporchi a Cinecittà, pur di non esser cacciato via. Oppure tornavo a casa, perché mio padre mi ha insegnato che una delle regole più importanti è non desiderare la roba d’altri. Il calcio è su una cattiva strada perché si fa di tutto per mandar via la gente dagli stadi: quando sono entrato a San Siro per Milan-Samp, l’ho visto mezzo vuoto e mi son sentito male. Ancor di più a vedere i nostri tifosi in piccionaia: più che in curva, sembravano in cima a un grattacielo. Così vuole la legge della tessera del tifoso, però poi i tifosi possono mandare affanculo gli steward e nessuno dice nulla. Mi dicono: «Ferrero, cambia questo calcio». Ma cosa posso cambiare io se quando ci troviamo in Lega sembra una riunione di condominio?».

IDOLI – Durante la sua vita, qualche modello c’è stato: «Non sono così narciso da dire me stesso, ma se mi chiede chi avrei voluto essere, le rispondo nessuno. Se poi parliamo di ammirazione, da buon autodidatta ho studiato a lungo JFK, un uomo che ha fatto molto per gli Stati Uniti e quindi per il mondo: ha fatto scelte che ha pagato con la vita. Sono sempre stati avanti gli americani: noi italiani saremmo i migliori, migliori anche di loro, ma purtroppo – qualunque cosa facciamo – non ne abbiamo mai abbastanza voglia. Nel cinema ho adorato Meryl Streep, ho conosciuto bene Sylvester Stallone e Quentin Tarantino, ma solo una volta ho risentito la stessa emozione di quando ho conosciuto il Papa: quando ho conosciuto Fidel Castro. Mica come Obama, che ha fatto la foto col fratello. Uomo di carisma e capacità straordinarie: sono stato due volte a casa sua, è grandissima».

ALTERNATIVE – Ferrero ha fatto anche altri mestieri nella vita: «Ne ho fatti tanti, mi manca l’ultimo ma è ancora presto. Per un po’ sono stato un fornaio. Ho lavorato in un bar, ma mi annoiavo e mi sono inventato un lavoro nel lavoro: compravo dieci caffé, li allungavo con l’acqua, ce ne facevo trenta e li portavo agli operai. Ci ho guadagnato dei bei soldini. Fra i 14 e i 18 anni ero benzinaio a tempo perso. A fare benzina da Italo passavano i ricchi quando andavano a sciare. Ho fatto pure il posteggiatore di Porsche, quando ho iniziato a frequentare le feste del cinema a Villa Miani. Prima di morire voglio fare il barcaiolo: amo il maree credo che la più grande fatica che puoi fare sia non fare niente. Ecco, fra un po’ di anni spero di faticare così».

RELIGIONE – Un rapporto intimo e difficile: «Ogni tanto vado a mezza in una chiesetta a via Frattina, accendo due candele, qualche volta mi confesso pure: da figlio di cattolici, credo sempre che Dio esista, anche se da bambino il mio rapporto con l’oratorio è durato poco. A un certo punto non mi ci hanno fatto più entrare. Per forza: volevano farmi fare il chierichetto, ma lavare le mani al prete non mi piaceva e il vino me lo volevo bere io. Quando il parroco tirava fuori il pallone, glielo fregavo e me lo portavo via per giocarci per strada. Però nello stesso periodo mi capitò di incontrare Papa Giovanni XXIII. Non sarebbe stato l’unico: la mia madre spirituale mi ha avvicinato anche a Wojtyla, ma lo straordinario calore addosso che avvertii di fronte al Papa buono non l’ho più sentito. Così forte che tanto anni dopo gli ho dedicato una fiction: rischiò pure di saltare. Allora parlavo inglese come Alberto Sordi, le dieci parole per impressionare Bob Hoskins me l’ero scritte su un pacchetto di Marlboro. Mi salvò un cameriere siciliano: tirai fuori dalla tasca una carta da 500 mila lire e un attimo dopo era il mio interprete personale».

SCUOLA – «Le ho detto addio a nove anni, avevo iniziato da poco la quarta elementare: soldi da buttare non ce n’erano. Avrei smesso anche prima, ma c’era la legge sulla scuola dell’obbligo, dunque venivano a prendermi a casa i carabinieri e arrivare in classe mi faceva sentire come un re. L’educazione però non s’impara solo sui banchi di scuola, per me venne prima di altri l’ora di lavorare. Però in quei tre anni e mezzo me l’ero cavata: studiavo pochissimo, ma avevo abbastanza orecchio per imparare le tabelline a memoria. E quegli anni me li sono goduti: il maestro leggeva il giornale, noi giocavamo a chi tirava più forte i calamai e all’ora della merenda frugavo nel cestino dei bambini più ricchi, visto che nel mio trovavo al massimo pane e olio. Però poi furono loro che iniziarono a invidiare me, perché come mi diceva mio padre non conta nascere ricco, ma avere credito: è quello il modo migliore per diventare ricchi. Ingaggiai cinque ragazzini: iniziavano ad aprire i supermercati, con un carrettino recuperavamo i cartoni che lasciavano fuori e li portavamo ai negozianti che ne avevano bisogno. Ovviamente dovevano pagare».

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