2014

Esclusiva Stadio/4 – Acciari: «Stadio vitale per la solidità finanziaria; la Samp lavora bene con i “social”»

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Il tema dello stadio di proprietà è tornato all’ordine del giorno dopo le recenti parole di Edoardo Garrone, il quale si augura che il progetto Fiera possa andare in porto per dare una spinta di competitività sportiva alla sua Sampdoria. Il calcio nostrano è chiamato a fare i conti con il calo di appeal del campionato e con il crollo del 30% dei diritti tv a partire dal 2015. Tutto questo lega i polsi ai club, che dovranno massimizzare il prima possibile i ricavi derivanti dalle “fonti alternative”. Merchandising, che ha fatto la fortuna del calcio spagnolo e tedesco, e fatturati da stadio, cardine del “football system” britannico, così come puntare sul vivaio e sullo scouting, sono aspetti che non possono più essere trascurati se vogliamo garantire una solidità e una competitività alle squadre di Serie A rispetto al mercato calcistico estero che sfreccia sempre rapidamente.

Per approfondire tutte queste tematiche abbiamo contattato Alberto Acciari, giornalista e docente di marketing sportivo presso l’Università Foro Italico di Roma, ideatore e presidente della “Acciari Consulting”, società leader nella consulenza marketing, comunicazione e nella creazione e gestione di eventi. 

Prof. Acciari, partiamo dallo stadio alla Fiera: come valuta questa idea di costruire una cittadella dello sport? «Sono a favore del progetto di costruzione di uno stadio di proprietà da parte di una società di calcio, in questo caso della Sampdoria. Prima di tutto si tratta di un “asset” tangibile, di un consolidamento di una società per azioni: per una solidità finanziaria e di programmazione sono un passo essenziale per la vita di una società di calcio. La seconda è che sono il fulcro di una attività economica, promozionale e commerciale che si può basare su questo asset».

In un’intervista a blitzquotidiano.it del primo marzo 2013, Edoardo Garrone ha detto che lo stadio di proprietà può far aumentare del 15-20% gli introiti, che passerebbero da 42 a 50 milioni di euro annui. E’coerente questa previsione? «Non posso entrare nel dettaglio delle percentuali perché non le conosco. Posso sapere che una società sportiva che ha un impianto di proprietà debba ottenere molti maggiori incassi rispetto ad uno stadio in affitto perché quello di proprietà diventa la casa della società. Uno stadio deve essere un luogo di attività completa. E’un errore pensare lo stadio come un luogo in cui si svolgono unicamente le partite di calcio perché per quanto la squadra possa essere forte, stiamo parlando di un impianto che dovrebbe vivere solo due giorni alla settimana. Per cui la struttura deve essere polifunzionale, un impianto non può che essere sfruttato tutti i giorni come quelli americani, cercando di farlo diventare una casa, un punto di incontro di tutto il mondo che può ruotare attorno ad una società».

Quali iniziative si possono realizzare per intrecciare stadio di proprietà e marketing? «Duecentomila. Tutte le attività commerciali sono attività di marketing, che significa agire nel mercato in cui si opera. Dobbiamo sapere chi è il nostro consumatore e quali sono i suoi gusti e le sue necessità e quindi l’impianto deve essere a misura del consumatore che si intende attirare e soddisfare. Se fossero tutte famiglie, possiamo fare un kinderheim, un cinema o dei locali per delle feste per bambini. Fare lo stadio non risolve niente, se viene inteso come è inteso oggi, tanto è vero che la critica che io rivolgo è che spesso si cerca di costruire lo stadio solamente per avere altri metri cubi di costruzione per poter fare alberghi, centri commerciali, abitazioni. Non è così: lo stadio deve vivere per se stesso, per le sue attività».

Quali sono i problemi del merchandising italiano rispetto a quello inglese? «Saper lavorare sul marchio, io penso. Noi partiamo nettamente in ritardo sul lavoro sulla “brand image” che hanno sviluppato gli inglesi. C’è proprio un problema culturale: quindici anni fa quando abbiamo iniziato a parlare di merchandising, partivamo dal fatto che in Inghilterra il marchio era un prodotto già affermato e in Italia le magliette delle squadre di calcio erano date gratis con i buoni della Parmalat. E’un bel salto passare da essere un oggetto promozionale gratuito a pagare cento euro, ci vogliono degli anni. E infatti mi facevano sorridere i grandi esperti del calcio quando dicevano di risolvere i problemi del calcio con il merchandising».

I diritti tv dovrebbero calare del 30% dal 2015: perdita gravosa per i bilanci delle società?
 «Se è vera questa previsione certo. Il 30% è una cifra importantissima, come fanno a sostituirli così. Il calcio vive al di sopra dei propri mezzi, non può vivere al livello in cui attualmente vive. E’una entità economica che nel suo complesso è già praticamente fallita ed è chiaro che un ridimensionamento ci deve essere».

Qual è l’importanza del lavoro con i social media per promuovere il brand? «I social media sono un veicolo per stare continuamente in contatto con il proprio pubblico. La Sampdoria è una società attenta e fa benissimo a lavorare come sta facendo sul social media per creare un gruppo sempre più vasto di suoi “followers”, che sono quelli su cui si può appoggiare tanta attività di marketing. Dobbiamo ragionare sul concetto di “tribù”: Oggi noi viviamo in una società estraniante per la perdita di identità e di rapporti umani e la gente cerca una reidentificazione attraverso dei simboli, cerca di entrare a far parte di una tribù. Le squadre di calcio hanno una facilità di ricreare una tribù, fatta di riti, di abbigliamenti e lì si crea la base per delle operazioni di marketing importanti».

Quanto “tira”, secondo lei, il brand U.C. Sampdoria? «Bisogna vedere la politica di “brand image” che viene fatta, i risultati sportivi e la partecipazione alle coppe. E’fondamentale affermare il proprio brand in un mercato più vasto perché si è pagati in relazione al veicolo di comunicazione che si rappresenta nei paesi; se sei solo in Italia, vali una certa cifra mentre se ti estendi in europa o nel mondo ne vali un’altra. La grande scommessa è fare diventare questi brand globali. Ecco la differenza che c’è tra i brand del calcio italiano e dei marchi tipo Barcellona, Manchester United e via discorrendo».

Ringraziamo il Prof. Acciari e Valentina Faiella per la gentile disponibilità

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