2014
Bertarelli si racconta: «Firmai in bianco per la Samp»
Un futuro spezzato da un intervento, da un destino maligno che lo ha allontanato per sempre dal calcio professionistico. Mauro Bertarelli si racconta a Il Secolo XIX, dal suo arrivo pieno di certezze alla Sampdoria alla doppia operazione per la lussazione della rotula e la rottura del crociato, in seguito allo sciagurato 29 novembre 1994: «Dopo quell’episodio ho ricevuto tanti attestai di stima e di affetto dovunque sono andato, e soprattutto a Genova. Mi capita ancora oggi, se leggo qualcosa che mi riguarda o incontro qualche tifoso. Ho capito che mi vogliono bene per quello che sono, e per come sono fatto è la cosa più importante. Un riconoscimento non per il Mauro Bertarelli calciatore, ma per Mauro e basta. E questa, alla fine, è la vittoria più bella. Lo dico senza nessuna retorica. Quando hai davanti gente come Mancini e Gullit è dura. Alla terza stagione cambiò tutto però: prima entravo dalla panchina, poi acquisii una certa consapevolezza. Forse ci stavo mettendo il carattere giusto. Improvvisamente ero un altro giocatore, quasi indispensabile, fino a quell’episodio. Pensare che non avrei dovuto giocare, riuscii a convincere perfino Eriksson a farmi provare; sembra che a certi appuntamenti col destino non puoi sfuggire. Successe subito, al primo minuto credo. Lancio lungo di Ferri verso l’area, io che scatto e mi scontro con uno più leggero, Rohnny Westad. Mi rimase il piede incastrato sotto il suo corpo, la gamba fece leva. Capii subito che ero rotto, che era grave. Il portiere norvegese venne poi a salutarmi negli spogliatoi, poi non l’ho più sentito. Pensai al male, a guarire, non a quanto mi potesse costare. Quando mi svegliai dall’intervento mi venne detto che per tutta la carriera avrei dovuto rispettare una regola: allenarmi il meno possibile».
Una vicenda in cui contò solo la fiducia nei confronti del presidente Mantovani: «Mi quotarono 9 miliardi di lire, entrai nell’affare Vialli. Capii subito che la Samp non era una società come le altre, e Paolo un presidente come gli altri. A Torino mi avevano proposto un ingaggio, era inferiore a quello che mi aspettavo. Quando seppi che mi voleva la Sam, firmai in bianco. Arrivai in sede, il presidente era sorpreso quando vide quella firma. Mi chiese quanto volessi, gli raccontai tutto e rispose “ok”. Quella era una famiglia, lui era fatto così. Si crearono dei rapporti personali, di affetto vero, che restano ancora, in particolare con la figlia Francesca»
Gli avvertimenti, poi, del luminare svizzero che lo operò si fecero sentire: «Quel ginocchio continuava a fare male, a gonfiare, anche se rispettavo scrupolosamente il comandamento di Renther e mi riusciva facile, perché sono leggero. Ora gioco a calcetto, ma non più come prima».