Hanno Detto
Gattuso non ci sta: «Come posso essere razzista?»
Rino Gattuso, prossimo allenatore del Valencia, ha parlato delle polemiche nate attorno a lui per alcune frasi del passato definite razziste
Gennaro Gattuso, avvicinato anche alla Sampdoria di recente, è ormai prossimo a cominciare la sua avventura sulla panchina del Valencia. In una intervista al Corriere della Sera ha parlato delle polemiche nate attorno a lui per alcune frase dette in passato definite razziste.
GIUDIZI DELLA GENTE – «Sono molto diverso da come vengo descritto da dodici mesi a questa parte. Si prendono dichiarazioni di anni diversi, le si isola dal contesto e si imbastiscono processi con l’obiettivo di delegittimare una persona, una vita. I tribunali sono cose serie: qualcuno accusa, qualcuno difende, qualcuno giudica. Qui il patibolo tecnologico si abbatte e definisce sentenze senza possibilità di appello. Io non sono un tipo da social. Se mi chiamano Ringhio, ci sarà un motivo. Non vado a caccia di facili consensi, non faccio il simpatico a comando. Sono uno che lavora, che ha sempre lavorato, che ha faticato tanto e che è grato alla vita per quello che gli ha dato. Quando sento dire che sono razzista mi sembra di impazzire. Nessuna persona, mai, può essere giudicata per il colore della pelle. Conosco tanti con la pelle bianca che non si comportano bene. Il razzismo va combattuto, sempre. Ho allenato decine di giocatori che avevano la pelle diversa dalla mia, nel mio ristorante ne lavorano tre, ho avuto compagni di squadra ai quali ho voluto bene. Per me non conta il colore della pelle, conta la persona. La sua onestà, la sua lealtà».
DONNE – «In ogni campo le donne fanno come e meglio degli uomini. Lo stanno dimostrando nei governi, nelle aziende, in ogni settore. Più donne avranno responsabilità e meglio sarà. Le aggiungo una cosa, che può spiegare il mio stato d’animo quel giorno: io considero Galliani come la persona migliore che ho incontrato nel calcio. Sapeva dire sempre la cosa giusta nel momento giusto. E non ti faceva mai sentire solo. Quando ho capito che il suo ciclo al Milan stava finendo ho sofferto, molto».
LA SUA FAMIGLIA – «Nasco in un paese di pescatori, Corigliano Calabro. I miei erano falegnami. Io ho lasciato casa a dodici anni per fare quello che mi piaceva e che sentivo di saper fare: giocare al calcio. Sono andato a Perugia, da solo. Ho patito tanto, ma in silenzio. Ero piccolo però sapevo che la scelta era quella giusta. Mio padre ha avuto grande coraggio e tanta fiducia in me. Per questo l’ ho sempre amato tanto. Mia madre ha pianto molto e mi dispiaceva. Ho vestito più di settanta volte la maglia della Nazionale. Ogni volta che sentivo l’inno di Mameli, anche prima della finale di Berlino, pensavo a quando lei mi urlava di tornare a casa perché stavo, bambino, a giocare sulla spiaggia per otto o dieci ore. Mio padre è andato a lavorare in Germania per un anno e mezzo. Un quarto della mia famiglia è sparso nel mondo, tutti sono andati a cercare quella fortuna che la Calabria non gli aveva concesso. Come diavolo potrei essere razzista?».
TESTATA A JORDAN – «E infatti ho sbagliato e me ne vergogno. Quello è qualcosa che ho fatto. È stato un ingiustificabile errore. Certo, potrei dire che sono cose di campo. Succedono, purtroppo. Ma invece me ne vergogno. Ho un figlio di quattordici anni, lei crede che io non mi vergogni davanti a lui per quella follia, quando me ne chiede giustamente conto?».
ANCELOTTI – «Io tifo sempre per Carlo. Come si può non farlo? Ho vinto undici trofei con lui. È un maestro. Riesce a gestire ogni gruppo. Ci riusciva trent’anni fa e ci riesce ora, come ha dimostrato al Real Madrid. Sarà bello incontrarlo in campo, nella Liga».
SALUTE – «Anche qui non ho mai nascosto nulla. Ho, come tante persone, una malattia autoimmune che si chiama miastenia oculare. Ne soffro da tempo ma è assolutamente sotto controllo e non comporta alcuna limitazione al mio lavoro. Non ho nessun impedimento, tanto è vero che ho sempre allenato. E non male. Anche a Napoli, dove ho allenato grandi giocatori in una grande società».
MONDIALE 2006 – «Ricordo ogni istante. Come un film. Io non dovevo partire. In un’amichevole avevo preso una ginocchiata. Lippi mi volle lo stesso. Era un momento difficile, con Calciopoli e il resto. Eravamo dei predestinati alla sconfitta. E questo ci caricò. Le voglio raccontare un episodio precedente. C’era appena stata la sconfitta del Milan a Istanbul, nel 2005. Io vado a Coverciano con la Nazionale. In conferenza stampa parto con un monologo di trentacinque minuti per spiegare la sconfitta rossonera. Torno in stanza, mi stavo asciugando i capelli, quando sento aprire la porta. Entra Lippi furioso, chiude a chiave. Mi ha sfondato. Mi ha detto che lì ero con la maglia azzurra e che solo di quella dovevo parlare. In dieci minuti mi ha insegnato molto. Il merito principale di quella vittoria è proprio suo».
MESSAGGIO TIFOSI VALENCIA – «Desidero solo fare il lavoro che mi piace, con tranquillità. Ed essere giudicato solo per quello. Per ciò che sono, davvero».